Le Poesie di Alessandro Cavallotti
        
        Un parroco parla al Signore
        
        la carne freme per motivi troppo umani
        per questa veste fragile che mani umane
        hanno tessuto - freme per motivi che un uomo
        come me come tutti gli uomini mantiene nel
        suo essere profondo
        nel suo essere uomo
        giudicami tu che io sento parte di me come
        parte di me è questa carne piena di sangue
        che vibra in petto per un profumo
        troppo distante dall'incenso
        giudica me che ho giurato fedeltà a te
        e ho tradito te per scrutare la danza di lei
        tu che sei dentro tutti noi e che ho visto appena
        dietro le palpebre di lei dimmi se ho
        peccato per la mia debolezza umana
        o se ho forse semplicemente
        naturalmente assecondato l'istinto
        più nobile dell'essere umano
        amare anima e corpo i porporati obbligano a
        separare ma è impresa vana e dimmi
        signore dimmi tu se è giusto
        tu che hai messo un po' di te in me
        e in lei dimmi se è giusto provare a
        squartare l'uomo che così tu hai voluto
        libero di scegliere bene e male
        dimmi se è vero
        che compio il peccato peggiore
        amando lei e amando questa veste
        vedendo solo bene in questo amore
        tu cosa vedi signore?
        
        Senza Titolo 
        
        Cammino, un uomo incrocia
        la mia strada – la mia strada
        piena di buchi – cammino, un uomo
        calpesta i miei piedi – crudeltà
        infinita – cammino,
        un uomo cammina, la testa
        bassa, sbatte un bastone
        sulla strada – toc toc
        toc – non sopporto – le unghie
        mi fanno male – cammino,
        un uomo incrocia la mia vita piena
        di buchi, lenti nere sugli occhi
        vuoti – cammino, il male
        è passato come l’uomo – cammino,
        ma ora mi fermo, mi volto e, mio
        dio, penso: quanti buchi
        sulla mia strada.
        Siedo su una panchina umida. Tutto
        intorno a me è lento e freddo, come
        una lancetta. Vedo corpi che viaggiano
        soli e dritti, sono ingranaggi di una
        catena di montaggio incredibile e
        senza senso, che non costruisce altro
        che se stessa… Meccanismi fasulli
        di un gioco chiamato Universo.
        Seduto su una panchina umida, sto
        aspettando te. Respiro odore di muschio,
        guardo un lampo qua vicino,
        un sorriso, un bacio, un abbraccio;
        un campanile rintocca, e ti vedo
        arrivare. Già sento il tuo profumo
        come muschio, e già sento un tocco,
        una brezza nel cuore, che io chiamo Vita.
        
        La notte
        
        La notte è fatta di fumo e veleno,
        bruciata da mille sigarette piene di erba
        e tristezza, sfinita da boccali di birra
        amara, uccisa da pasticche
        seducenti, candide come fantasmi.
        La notte è fatta di vento freddo,
        strappa ogni velo da emozioni,
        rende visibile ogni sospiro. Colpi di tosse
        vibrano note gelide, poche parole
        agitano una tempesta, danzante nell’aria percossa,
        nel silenzio aghi di silenzio torturano le guance.
        La notte è fatta di una mano chiusa
        a pugno su un collo di bottiglia, chiusa
        a pugno su una vita senza ricordi, mentre
        aghi di silenzio torturano le guance, e gli occhi
        altro non sognano che il sonno.
        
        Ma nella notte a volte gli occhi
        osano guardare, il buio illumina
        e accompagna passi incerti; a volte
        le mani, le parole osano
        sfiorarsi, passa un attimo
        e i passi crescono, divengono
        un cammino. Alle spalle, schegge di vetro.
        E mentre l’aria fredda
        si scalda tra due mani strette, gli occhi
        – due coppie – guardano il primo sole,
        la fine della notte
        
         
        
        Per Lei
        
        Un tremito mi dice che devo andare;
        pochi attimi, e mi sarei alzato,
        ti avrei baciata,
        e sulla porta ti avrei salutata,
        come se fosse stata l’ultima volta,
        la mente già alla prossima volta.
         
        Pochi attimi, e avrei sentito il rumore
        dell’aria, il rumore del mondo,
        frastuono improvviso dopo il dolce silenzio
        delle tue parole, schiaffo che stordisce
        dopo il soffio di luce
        delle tue mani.
         
        La porta socchiusa lascia passare
        uno spiraglio di notte, e la notte è chiara
        e gelida, e io caldo e riluttante
        ti vedo, e i tuoi occhi sono
        cavalli alati, visioni celesti
        luccicanti di rugiada.
         
        Ormai sto per andare, ma la tua mano
        mi ordina di fermarmi. E il tuo
        abbraccio, il tuo sguardo, le tue parole
        immense m’invadono, ed è come
        morire e ritornare in un istante,
        e, in un bacio, vivere per sempre.
        
        Amore
        
         All’improvviso ero stanco, i piedi
        balbettavano sulla strada ruvida
        circondata da montagne morenti,
        consumate dalla loro ombra che
        si attaccava alla sabbia, alle
        pietre e ai macigni che sgranocchiavo
        sotto i sandali. Vidi il fondo della strada, 
        ma all’improvviso ero stanco, e mi fermai.
         
        L’ultima luce rimasta sparì
        come in un vortice, ed io pensai al respiro
        di un gigante, mentre una roccia
        malata diventava il mio rifugio.
        Sulla superficie scoprii segni segreti,
        timbrati dal fuoco di sogni vissuti,
        bruciati dal freddo della memoria. Le mie mani
        si scaldarono su quell’antico racconto.
         
        Un’era passò, e sandali nuovi
        calpestarono l’antico sentiero. I piedi stanchi
        chiesero riposo, e su una pietra l’uomo
        si appoggiò. Un nuovo racconto brillava
        sulla fredda roccia, rune infuocate
        avevano risvegliato sogni vissuti.
        L’uomo pensò a lei, e ringraziò chi aveva narrato
        di nuovi sospiri e nuove carezze.
        Alla finestra
        
        Il diamante del cielo litiga
        con il lamento della strada,
        moltitudine di occhi attenti
        e stanchi, mani chiuse e,
        forse,
        aride e avide di corpi caldi,
        di altre mani che li
        aspettino.
         
        Un nuovo dolore intruso
        disturba il silenzioso urlo di gomma:
        le luci accecano feritoie nere,
        notte che vede la notte. Solo un attimo, e
        l’urlo si condensa, e il dolore
        è sconfitto: feritoie chiuse.
         
        Un piccolo sole illumina
        una vela bianca, e il vento
        le parla del mondo,
        le parla di noi.
         
        Io ascolto il vento che parla di morte,
        io sono il vento che parla d’amore.